E soprattutto, “è finita”, si dice alla fine.

Condividi su

Il giorno dopo è fatto di rimpianti e gioie.
Di commenti da bar e sensazioni ancora vive.
E le sensazioni valgono tutto.
Iniziano presto, la mattina della partita.
Scendi per strada e l’invasione dei Napoletani è già nel pieno del suo svolgimento; incontri chiunque, gente che conosci da una vita e gente che non vedi da una vita.
Tutti insieme, in uno stesso posto, per lo stesso motivo.
La fotografia dell’amore è in ogni vicolo, sembra di essere tra i tribunali e i decumani, se non fosse che manca l’odore della pizza.
Il prepartita iniziato così presto ti permette di essere ancora adrenalinico, di lasciare l’ansia in un angolino del tuo cuore per poi farla esplodere al momento giusto.
La allontani in tutti i modi che sai, e tra una chiacchiera e l’altra, tra una tapa e l’altra, ti ritrovi a Plaza Mayor.
Si respira un’aria bella dappertutto, Napoli è dovunque.
A Plaza Mayor ci sono solo palazzi di un certo livello, costruzioni che mettono quasi soggezione.
Ma all’ultimo piano di uno di questi palazzoni, c’è una signora fuori a un terrazzino coi panni “spasi”.
Quasi non ci credi.
Madrid pare colonizzata.
Il pomeriggio passa relativamente lento continuando ad assaporare tutta l’adrenalina, vivendola pienamente senza perderne nemmeno una briciola, sperando quasi la partita non arrivi per non riportarti alla realtà, per tenere quell’ansia ancora racchiusa come in un forziere da aprire soltanto pochi minuti prima.
Poi, mentre non te ne accorgi nemmeno, arriva il momento.
Scendi in metro e non hai bisogno di indicazioni: la situazione è già delirante; le maglie azzurre, i colori azzurri, le voci azzurre, sono dovunque.
Segui la massa.
“Il treno arriverà tra due minuti”.
Campeggia questa scritta al binario.
Nel silenzio, una voce.
È fatta.
Partono cori a non finire, la passione esplode in tutto il suo meraviglioso splendore.
È l’amore.
Piangi mentre canti.
Ma tanto.
Il corpo è fatto di brividi, staresti lì per ore a emozionarti così.
Il viaggio in metro è il momento più intenso, le voci non calano, le lacrime altrettanto.
Appartenenza.
Questo è quello che molti non possono capire.
Guardare negli occhi attorno ai tuoi e vedere le stesse lacrime, le stesse speranze, lo stesso amore.
Appartenenza.
Sarebbe potuta finire lì, senza neanche iniziare, sarebbe stata una giornata comunque perfetta, una partita comunque vinta.
Momento di vuoto.
Poi, è il Bernabeu.
E per chi c’era quando gli avversari erano Martina Franca, Acireale e Gela, la soddisfazione supera quasi l’emozione.
Il fischio d’inizio è a un passo.
L’inno Champions.
Si parte.
Momento di vuoto.
È il delirio.
Quando quel pallone entra in porta, è totalmente il delirio.
Ora le lacrime non sono di emozione.
Non sono di appartenenza.
Quella che si era vista da quando il pallone lo tocca Insigne a quando capisci che è 0-1, quella sì, era la felicità.
E non la puoi fermare.
Non la vuoi fermare.
Ti pervade, e vorresti non finisse mai.
Il resto della partita va come va, come era previsto.
Parlano tutti i professori dopo, e parla un omuncolo che tutto si dimostra fuorché un presidente.
Ma tant’è, le chiacchiere da bar lasciamole fuori da questa storia.
Almeno per un po’.
Le emozioni, le emozioni.
Quelle contano.
E sono state troppo intense per lasciar spazio a commenti su chi avrebbe dovuto o non dovuto giocare.
Oltretutto, di minuti ce ne sono ancora novanta.
E soprattutto, “è finita”, si dice alla fine.
E noi abbiamo ancora tre settimane piene di passione e amore da vivere.
Abbiamo visto la felicità, ma non è detto che l’abbiamo vista tutta.

Forza ragazzi, noi ci crediamo!

Sono un ingegnere aerospaziale di 28 anni, appassionato di lettura, viaggi e malato del Napoli e di Napoli. La passione per la scrittura e per i viaggi mi ha permesso di aprire la mente, di non avere pregiudizi, di considerare la vita in maniera non convenzionale, e di immaginarla come un immenso viaggio tra le culture di ogni parte del mondo.