La depressione al Grande fratello tra gli attacchi del ” branco” e il ritiro del concorrente

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di Maria Rusolo

Dovunque mi fossi trovata, sul ponte di una nave o in un caffè di Parigi o a Bangkok, sarei stata sotto la stessa campana di vetro, a respirare la mia aria mefitica.

Ho sempre creduto che non ci siano trasmissioni che non vadano guardate o libri che non vadano letti, sono una di quelle che non cambia canale neanche durante i break pubblicitari, anche quella è una comunicazione importante, non si tratta solo della promozione di un prodotto, anzi spesso prima di tutti chi le realizza riesce a cogliere i mutamenti sociali e li fa arrivare nelle case delle persone, senza filtri di sorta.

Ora questa è la premessa per commentare quanto accaduto ad un personaggio nella Casa del Grande Fratello, e vi prego di non storcere il naso, a mia discolpa devo dire che di solito il lunedì seguo qualche fiction a letto, ma spesso quando l’attenzione cala, cambio canale e mi soffermo su quello che nato come esperimento sociale è divenuto ben presto l’emblema del trash più commentato sui social, quindi in qualche modo cerco di seguirlo in maniera discontinua per comprendere le dinamiche e non essere completamente fuori dal mondo . In questa stagione la produzione ha pensato di scegliere nel cast personaggi dal passato difficile, per provare a dare, secondo loro, un contributo anche al superamento degli stereotipi, lottando contro ogni forma di discriminazione, per cui ecco la trans che racconta il proprio difficile passato, la quarantenne che ha avuto un tumore, la cantante ultra sessantenne che ha da poco perso una figlia, un costumista ed opinionista affetto da hiv , una show girl che ha inventato un fidanzato, raccontando di un matrimonio all’orizzonte e da ultimo un presentatore della tv per ragazzi degli anni Novanta affetto da depressione.

Ebbene intere pagine di giornali on line e cartacei si sono soffermati su tutti, tranne che sul personaggio affetto da depressione, pare che nessuno sapesse, o che i farmaci che assumeva in quello spazio spiato e ristretto fossero state scambiate per pillole al collagene per mantenersi giovani. Ad ogni buon conto, la persona in questione forse ha pensato di poter condividere il proprio malessere, ha pensato che anche quando un mostro non sia visibile non debba essere considerato meno pericoloso, ha pensato che sarebbe stato accolto, ascoltato, aiutato ed invece si è trovato dinanzi ad un muro di gomma, fatto di indifferenza, violenza verbale e cattiveria.

Qualcuno gli ha detto che quello non era il posto adatto, che non si poteva rendere l’atmosfera pesante, che non si poteva annoiare gli altri ed i telespettatori e dopo una crisi terribile, il buon cristiano ha deciso di togliere il disturbo. Tutto spiattellato davanti a milioni di telespettatori, tutto visibile sui social a tutti, quello che però stavolta non era stato considerato e soppesato era il moto di sdegno nato nella opinione pubblica, che non ha retto e si è pronunciata come un tribunale e senza alcuna forma di comprensione o appello.

Non avevano considerato i piccoli indiani che la gente oggi è diversa, che rispetto a certe patologie esiste una sensibilità, ed una capacità di ascolto mutata, perché il numero di persone che ne soffre è aumentato a dismisura, e quelle stesse persone ammalate patiscono nella scuola, nei luoghi di lavoro, tra gli amici e nelle famiglie, lo stesso stigma, lo stesso dolore ed a volte trattengono il proprio malessere per non essere isolati, derisi e/o bullizzati. Ecco non hanno considerato che il mondo sta cambiando, che anni di pandemia, di crisi economica e sociale, l’assenza di strutture adatte alla cura hanno reso visibile a tutti ciò che una volta era invisibile, lasciato covare sotto la cenere per paura di essere etichettati o di dover indossare la lettera scarlatta della vergogna. I pazzi, i miei pazzi, come li chiamava Andreoli in un suo splendido libro, che vi consiglio di leggere, abitano tra noi, siamo noi, e non vogliono più nascondersi, vogliono piangere, ridere, curarsi, parlare, cercare comprensione e ricevere aiuto e sostegno.

Una volta mia madre che soffre di disturbo bipolare da sempre, mi ha detto: ” avrei preferito avere un tumore, almeno in quel caso qualcuno ti crede, comprende le tue sofferenze e ci si può curare più facilmente, inoltre non avrei vissuto tutta la vita con l’angoscia di trasmetterlo ai miei figli.” Io per gli altri ero una adolescente strana, perché ahimè ho ereditato un po’ di quella che romanticamente si chiama Malinconia, e non ne ho fatto mai un elemento di cui vergognarmi, anzi l’ho attraversata e vissuta, vestendomi di forza e speranza, sentendomi non capita ed accettata, ma trasformandola in una battaglia da combattere per me stessa e per gli altri ed oggi che leggo le reazioni, il dissenso, la compartecipazione alla sofferenza nei miei simili, in così tanti simili e, mi sento quasi sollevata, mi sento che non è tutto inutile e che un pezzo di strada è stata fatta.

Non vergognatevi, non temete il giudizio degli altri, sarà possibile che non vi comprendano tutti, ma c’è una nuova sensibilità che cresce che trasforma il dolore in un fatto collettivo e non individuale, che ci rende tutti uguali nelle nostre differenze, nelle nostre lacrime, nelle nostre paure e solitudini. Uno solo non cambia il mondo, ma può provarci.

La depressione è un buco nero
che assorbe luce e energia,
che disfa, collassa, assorbe
la materia dell’io.
Alla fine vorresti essere il non nato,
lo spermatozoo perdente
che nella lotteria genetica della vita
è rimasto indietro.

Nasco in un piccolo paese della provincia di Avellino, con il sogno di girare il mondo e di fare la giornalista, sullo stile della Fallaci. Completamente immersa, sin dalla più tenera età nei libri e nella musica, ma mai musona o distante dagli altri. Sempre con una battaglia da combattere, sempre con l’insolenza nella risposta verso gli adulti o verso chi in qualche modo pensasse che le regole non potessero essere afferrate tra le dita e cambiate. Ho sempre avuto la Provincia nel cuore, ma l’ho sempre vissuta come un limite, una sorta di casa delle bambole troppo stretta, per chi non voleva conformarsi a quello che gli altri avevano già deciso io fossi o facessi. Decido di frequentare Giurisprudenza, con il sogno della Magistratura, invaghita del mito di Mani Pulite, ma la nostra terra è troppo complicata, per non imparare presto ad essere flessibile anche con i sogni e le speranze, per cui divento avvocato con una specializzazione in diritto del lavoro prima e diritto di famiglia poi, ma anomala anche nella professione e mal amalgamata alla casta degli avvocati della mia città. La politica e la cultura , i cuori pulsanti della mia esistenza, perché in un mondo che gira al contrario non posso rinunciare a dire la mia e a piantare semi di bellezza. Scrivo per diletto e per bisogno, con la speranza che prima o poi quei semi possano diventare alberi.