Lunga vita ad Aiace

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di Enrico Ariemma

Confesso il mio peccato.

È successo di nuovo.

Ho urlato a squarciagola, assunto posture scomposte, esultato come se non ci fosse un domani, l’ho fatto, e l’ho fatto in nome e per conto del sacerdozio di una vita votato all’amore per i miei colori e per la mia città, e all’odio per chi intasca da sempre scudetti dal sapore di trastola, per chi, come stesse salmodiando devoto un’avemaria di fede speranza e carità, racconta che mai avrebbe aiutato un arbitro a decidere secondo il vero e il giusto il destino di un campionato, per chi preferisce due feriti a un morto, per chi pesca nel torbido confondendo e invitando a confondere onestà con sensibilità, per chi sostiene che una cosa bella, esteticamente intendo, come lo sport non dovrebbe contemplare alcuna complicazione di tipo estetico, per la quale, eventualmente, si va al circo.

No, questo no: io ho goduto come un mandrillo in astinenza, e mi stupisco a sentirmi circondato, si fa per dire, dal perbenismo radical di chi ci spiega che è da perdenti, che non si fa, che deve interessarci solo il Napoli, che come può mai essere, che ci spiegano che Napule è cagnata, niente tricchitracche e niente tricchebballacche, no, santi numi che pesantezza, un Alessandro Siani in forma avrebbe chiosato glossato postillato questo lamento patinato da equidistanza ciellina col suo immortale, franco e cordiale “ ‘i che vecchiamma”.

Rileggiamo: «Douglas è andato via, ma doveva lasciare la gamba lì, perché De Jong era già ammonito e sarebbe stato espulso, saltando così il ritorno. Le vittorie passano anche da queste cose: tutti puliti non si gioca… diranno che istigo? Dicano quel che vogliono».

È una roba disgustosa, si converrà, assolutamente disgustosa, e quel signore non prova la minima vergogna, perché le sue parole rancide sono lo specchio di questo paese che lo supporta e lo sostiene.

E io dovrei accettare la morale di chi, con memoria selettiva degna di causa migliore, ci insegna da un pulpito abusivo che non è da bambini bravi e timorati di dio esultare per una debacle altrui? Questa non è una sconfitta, e la nostra non è una esultanza che vilipende un nemico supplice, questa è soltanto umana soddisfazione per il ripristino di sacche basiche e minimali di giustizia, morale assai prima che sportiva, è la dimostrazione ennesima che in Europa, dove la gestione delle competizioni, al netto di magagne che pure sono fastidiose, appaiono ispirate a una parvenza di pulizia, la Juventus semplicemente non vince, non vince, non vince, e per salutare paradosso di questa legge sono icona proprio le due coppe alzate negli ultimi sette lustri, una irrossita dal sangue, l’altra inquinata dai farmaci.

Chi si rende odioso è odiato, senza fronzoli e edulcorazioni, accade nella vita, accade nello sport. Così è. E non si venga a rosicare con la menata che chi vince fa rabbia al prossimo: Real, Barca, United, Ajax, Benfica, Bayern, sono amati e rispettati, di loro è fama e gloria nell’universo mondo. Questi qui, arroganti con i deboli ma in balia di un manipolo di pazzi meravigliosi fortissimi incoscienti ragazzini, raccolgono un po’ di bene, spiace dirlo, soltanto in lande periferiche della Terronia prive di radici appartenenza cultura identità.

Dunque ho esultato.

Ho esultato per il sogno strappatomi dalle viscere un anno fa, dopo essere portati a scuola da Sarri e Koulibaly, quando fu messa in campo l’artiglieria pesante, con la sfacciata protervia di chi salvo di godere di immunità preventiva e impunità pregiudiziale, ho esultato per quello che si legge a proposito di un JUve-Derby County del 1973 in un libro di un grande David Peace la cui esistenza tanti ignorano, “Il maledetto United”; ho esultato anche per l’invocazione tra l’accorato e lo sdegnato della zona franca chiamata Italia, nella quale “quello sarebbe stato rigore”, ho esultato, semplicemente, perché la pancia me lo diceva.

La Pancia, già.

Perché vallo a spiegare a un manipolo di ignoranti, nostrani e forestieri, che un verbo come pariare lo teniamo solo noi, e io ho pariato, ho maledettamente pariato.

E dunque, lunga vita ad Aiace, l’acerrimus Ajax, il fortissimus Ajax, il bellator Ajax, il più forte tra i greci quando Achille, incazzato, Se ne stava nella tenda, Ajace, il signore dello scudo a sette pelli.

Enrico Ariemma Docente di Lingua e Letteratura latina presso l’Università di Salerno. Uomo di inverni miti e di estati di passione, malato di Napoli e di filologia, in quale ordine non saprebbe dire. Chirurgo di testi per vocazione antica e per impegno accademico, prova con francescana ostinazione a educare alla Bellezza, dinanzi ai cui inattesi impercettibili cristalli si stupisce e si commuove. Per questo detesta con pervicace ostinazione il brutto, il crasso, il banale, il volgare. Stanziale da quarant’anni al San Paolo, legge, scrive, insegna, cavalca una moto, inforca gli sci, va per mare, vagabonda per mostre, viaggia per le leghe del pensiero e per le strade del mondo. Ama.