Sanità, se un ricovero in TSO diventa un’odissea triste e senza fine. Il racconto di una paziente

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di Maria Rusolo

Il manicomio è una grande cassa     di risonanza e il delirio diventa eco l’anonimità misura, il manicomio è il monte Sinai, maledetto, su cui tu ricevi le tavole di una legge agli uomini sconosciuta.

Vorrei raccontarvi una storia oggi, piccola e forse per molti insignificante, ma visto che si parla tanto di salute mentale per me importante, perché consente di gettare una luce, su una realtà a molti sconosciuta, quella dei TSO, i trattamenti sanitari obbligatori, che sono un inferno a tempo, presente ancora nel nostro Paese, di cui molti non sanno, non per mancanze di interessamento, ma per una sorta di rimozione collettiva.

Dopo l’approvazione della legge con la quale si è prevista l’ abolizione della struttura manicomiale, è stata prevista una terra di mezzo alla quale sottoporre il ” matto” che sia pericoloso per se stesso o per gli altri, si prevede infatti un ricovero coattivo in un reparto psichiatrico per un periodo di tempo limitato. Durante il ricovero si imbottiscono i mal capitati di farmaci e li si tiene ” costretti” sino a quando non li si restituisce al mondo, senza alcun paracadute e senza nessun monitoraggio su quello che accadrà in futuro.

Abbandonati a loro stessi, probabilmente avranno gli stessi comportamenti ed avrà inizio una spirale senza ritorno, alla quale molti mettono fine togliendosi la vita. Mi auguro che nessuno abbia provato direttamente o indirettamente questa esperienza, che turba, scuote, lascia interdetti ed appare nei sogni ogni notte per sempre, io me la sono fatta raccontare da chi l’ha vissuta e non sono stata più la stessa. Il racconto ve lo restituisco così come mi è stato riferito in prima persona, perché non voglio aggiungere o sottrarre nulla, lascio a voi che avrete la pazienza di leggermi le valutazioni umane ed etiche. “Doveva essere dicembre, avevo freddo e non avevo dormito, mi aggiravo per casa incapace di farmi anche un caffè, i pensieri erano di morte e speravo di mettere fine al mio dolore una volta e per sempre. Non avevo più speranze, forse non ne ho mai avute, allora ho preso una manciata di pillole ed ho bevuto, un’altra ed ho bevuto e poi non ricordo quasi nulla, solo un rumore di una sirena in lontananza , dinnn donnn, dinnn, donnn.

Doveva essere un’ambulanza, anche oggi quando sento passarne una, i miei sensi si svegliano ed un tremore mi invade il corpo. Credo sia paura, ma non lo so. Sai che faccio fatica a definire quello che provo, ho sempre avuto paura dei miei sentimenti. Mi sono svegliata in una stanza e non potevo muovermi, facevo fatica a tenere gli occhi aperti, ho alzato un poco la testa ed ho visto una porta di ferro ed io ero legata, ai polsi, ero legata, come un animale, ero legata. Bocca secca e niente acqua, nessuno vicino a me, ero sola, ho pensato che quello fosse l’inferno e di essere morta, ho sperato fosse così, ma era peggio. Quando è arrivato il medico mi ha detto che ero in ospedale sottoposta a Tso e che sarei dovuta stare lì e che ero sola, mi avevano lasciata al pronto soccorso ed erano andati via.

Non potevo scappare, ho spiegato che stavo bene, ma nessuno ascoltava, e dopo un po’ ho ripreso a dormire. In lontananza sentivo urla, piedi che sbattevano e persone che parlavano, sussurravano, ma non vedevo nessuno. Allora ho sperato di morire ed ho dormito per non sentire, vedere, capire. Volevo toccarmi le mani, ma non potevo ed ho detto a me stessa, che era meglio stare lì ferma pregando Dio che mi togliesse dalla pelle il dolore di quegli aghi. Bianco, ferro, faceva freddo, odore di brodo o di alcool, avevo i piedi freddi, non potevo scappare, avrei voluto sentire l’odore del caffè, ma all’Inferno non c’era il caffè, all’Inferno non c’è niente. Mi mancava l’aria, respirare quella del mattino dal balcone, ma ero lì. Bianco, ferro, alcool, avevo sete, paura, ero sola. Non ho più altri ricordi, forse li ho rimossi, scusami, ma non ci voglio mai più tornare. Ti prego ho solo questa preghiera.”

“Io dico che queste mura sono strane: prima le odi, poi ci fai l’abitudine, e se passa abbastanza tempo non riesci più a farne a meno: sei istituzionalizzato. È la tua vita che vogliono, ed è la tua vita che si prendono. La parte che conta almeno.”

Nasco in un piccolo paese della provincia di Avellino, con il sogno di girare il mondo e di fare la giornalista, sullo stile della Fallaci. Completamente immersa, sin dalla più tenera età nei libri e nella musica, ma mai musona o distante dagli altri. Sempre con una battaglia da combattere, sempre con l’insolenza nella risposta verso gli adulti o verso chi in qualche modo pensasse che le regole non potessero essere afferrate tra le dita e cambiate. Ho sempre avuto la Provincia nel cuore, ma l’ho sempre vissuta come un limite, una sorta di casa delle bambole troppo stretta, per chi non voleva conformarsi a quello che gli altri avevano già deciso io fossi o facessi. Decido di frequentare Giurisprudenza, con il sogno della Magistratura, invaghita del mito di Mani Pulite, ma la nostra terra è troppo complicata, per non imparare presto ad essere flessibile anche con i sogni e le speranze, per cui divento avvocato con una specializzazione in diritto del lavoro prima e diritto di famiglia poi, ma anomala anche nella professione e mal amalgamata alla casta degli avvocati della mia città. La politica e la cultura , i cuori pulsanti della mia esistenza, perché in un mondo che gira al contrario non posso rinunciare a dire la mia e a piantare semi di bellezza. Scrivo per diletto e per bisogno, con la speranza che prima o poi quei semi possano diventare alberi.