Sanremo, specchio del Paese

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di Maria Rusolo

“Scostante, aliena, trafitta, io so come ti senti. Sono qui trafitto nei tuoi preconcetti, aiutami, perché ne ho bisogno, come si ha bisogno dell’abbraccio di una madre. Non dimenticare chi eri. Tu sopravvivevi perché ti bastava un abbraccio. Io sarò lì per guardarti amare di nuovo.

Sono il Glam rock. Sono un volto coperto dal trucco. La lacrima che lo rovina. Il velo di mistero sulla vita. Sono la solitudine nascosta in un costume da palcoscenico. Sessualmente tutto. Genericamente niente. Esagerazione, teatralità, disinibizione. Lusso e decadenza. Peccato e peccatore, Grazia e benedizione. Un brano che diventa nudità. Sono gli artisti che si spogliano, E lasciano che chiunque possa spiare nelle loro camere da letto e in tutte le stanze della psiche. Esistere è essere. Essere è diritto di ognuno. Dio benedica chi è.”

Si è aperto il sipario sul Festival di Sanremo anche quest’anno, in piena pandemia, che tutti si aspettavano a questo punto fosse solo un brutto ricordo di un anno funesto. Ed invece siamo ancora qua, e lo spettacolo deve andare avanti, come è giusto che sia, perché la vita deve andare avanti, e la musica è il tappeto che accompagna la nostra esistenza.

Teatri chiusi, Cinema chiusi, musei sbarrati, il mondo della bellezza è fermo da oltre un anno con enormi danni in termini di produzione della ricchezza materiale ed immateriale del nostro Paese, per cui ben venga anche il Festival della Canzone Popolare in questo momento. Non mi concentrerò sui testi e sugli artisti in maniera specifica, mentre scrivo si sono esibiti solo una parte di essi, ed ho la buona abitudine di ascoltare molte volte prima di poter giudicare quello che ho di fronte, anche perché se la gente fosse abituata saprebbe bene che gli artisti live hanno sicuramente un impatto diverso rispetto a quello filtrato da uno schermo televisivo o da una registrazione su supporto audio.

Io in realtà voglio scrivere di altro, le parole che aprono il mio pezzo di oggi, sono quelle del monologo di Achille Lauro ed a mio avviso vanno lette con estrema attenzione, perché Sanremo ci piaccia o no è lo specchio di questo nostro malandato e scalcagnato Paese. Esiste una Fenomenologia del Festival, si analizzano tutti gli elementi, la moglie di, il conduttore, i vestiti, le barre, i musicisti, le scenografie, come sempre accade in queste occasioni, e per una settimana diventiamo tutti esperti di tutto, come quando gioca la nazionale al finale dei Mondiali, e per giunta perde.

Usiamo lo stesso atteggiamento anche nei confronti della politica per la verità, e quella che pensiamo sia ironia in realtà diventa l’espressione tangibile di come ci comportiamo lungo le vie della nostra esistenza. A noi Italiani piacciono i mediocri, piacciono quelli che ci compiacciono, vedi ad esempio il caso del dimagrimento di Noemi, ci piacciono quelli ci rassicurano, quelli che suscitano la nostra compassione e pietà, come un Casalino qualunque con il suo lacrimare all’addio di Conte, ci piacciono i finti perbene, gli pseudo-educati, gli impiegati del Catasto che timbrano le pratiche senza mai avere un sussulto, quelli che attendono pacifici il proprio destino senza mai ribellarsi, guai uscire dal percorso stabilito, guai a vivere la propria vita e le proprie fatiche e dolori in pubblico, con coraggio e forza, guai a portare in pubblico o giammai su un palco i segni di una depressione o di una violenza, o giammai quelli di un passato difficile, o di una vita vissuta in libertà. Nel mondo dell’arte questo è ancora più evidente, ecco perché non abbiamo avuto artisti maledetti, scarafaggi, non abbiamo avuto una vera rivoluzione culturale in questo Paese, la costruzione di un percorso alternativo e diverso, nulla di originale sotto il sole.

Il discorso vale per tutte le sue forme espressive, basti pensare alla letteratura, ad esempio, non abbiamo scrittrici del calibro della Strout e della Atwood, che portano sulla carta donne che hanno rotto gli schemi, donne coraggiose che non si sono piegate agli stereotipi ed alle imposizioni del loro tempo. Non abbiamo più il coraggio di osare, perché all’Italiano medio piace immedesimarsi in ciò che afferra e comprende e che non possa disturbare la propria quiete. Ed allora anche nella fiction meglio un Montalbano di un Ricciardi.

Abbiamo bisogno di gabbie che ci contengano e che ci rassicurino, per isolare ogni tipo di contagio culturale, non solo quello pandemico, ed accettiamo tutto con rassegnazione, gridando e strepitando solo perché nello spazio del social non siamo evidentemente riconoscibili. Una palude nella quale è finita anche l’arte che per definizione non accontenta i potenti, non si piega, non ubbidisce neanche a chi la finanzia, non si conforma, ma anzi è l’esaltazione di ciò che è contro, anticipa e crea le basi per la rivoluzione.

Qualcuno sorriderà al cospetto delle mie parole, come spesso accade, e penserà che sia una esaltata e che voglia cercare anche in Sanremo, un barlume di speranza, ma io come sempre faccio spallucce e vado dritta, convinta che tutto sia utile per rompere il muro del silenzio della perdita dei diritti e della libertà. La libertà è mutevole, sfuggente, quando si pensa di averla tra le mani, te l’hanno già strappata, è un filo sottile di cui bisogna avere cura, ed io attendo fiduciosa, in piedi pronta a difenderla con tutta me stessa, convinta che è dalla bellezza, che nessuno riconosce che verrà la fiamma per far divampare l’incendio di una vera rivoluzione.

“L’arte non è uno specchio per riflettere il mondo, ma un martello per forgiarlo.”

Nasco in un piccolo paese della provincia di Avellino, con il sogno di girare il mondo e di fare la giornalista, sullo stile della Fallaci. Completamente immersa, sin dalla più tenera età nei libri e nella musica, ma mai musona o distante dagli altri. Sempre con una battaglia da combattere, sempre con l’insolenza nella risposta verso gli adulti o verso chi in qualche modo pensasse che le regole non potessero essere afferrate tra le dita e cambiate. Ho sempre avuto la Provincia nel cuore, ma l’ho sempre vissuta come un limite, una sorta di casa delle bambole troppo stretta, per chi non voleva conformarsi a quello che gli altri avevano già deciso io fossi o facessi. Decido di frequentare Giurisprudenza, con il sogno della Magistratura, invaghita del mito di Mani Pulite, ma la nostra terra è troppo complicata, per non imparare presto ad essere flessibile anche con i sogni e le speranze, per cui divento avvocato con una specializzazione in diritto del lavoro prima e diritto di famiglia poi, ma anomala anche nella professione e mal amalgamata alla casta degli avvocati della mia città. La politica e la cultura , i cuori pulsanti della mia esistenza, perché in un mondo che gira al contrario non posso rinunciare a dire la mia e a piantare semi di bellezza. Scrivo per diletto e per bisogno, con la speranza che prima o poi quei semi possano diventare alberi.