La fine della mia giovinezza

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di Lorenzo Effuso

Con l’addio ad Alfredo Cerruti, possiamo definitivamente considerare conclusa quella meravigliosa storia musicale, culturale, letteraria e beffarda che sono stati gli “Squallor” negli anni compresi tra i Settanta e i Novanta del Novecento. E se è vero che il reale raggiungimento della popolarità di un soggetto è testimoniata dall’entrata nell’uso comune delle sue espressioni e dei suoi modi di dire (il “s’informi” di Totò o “la nuvola di Fantozzi” di Villaggio, giusto per citare due esempi), è allora indiscutibile affermare che anche gli “Squallor” sono diventati parte integrante della nostra cultura popolare, se solo pensiamo agli inverosimili Indiani “Arrapaho”, alle improbabili (dis)avventure di “Pierpaolo” o ai versi eternamente memorizzati di “Curnutone”, che sono ormai parte integrante della nostra quotidianità.

Nato quasi per scherzo dalla fervida mente di Alfredo Cerruti, Totò Savio, Giancarlo Bigazzi, Daniele Pace (e, almeno agli esordi, di Elio Gariboldi), discografici, musicisti e parolieri talentuosi e famosi, il gruppo degli “Squallor” fu inizialmente improntato ad una comicità (solo) apparentemente semplice e demenziale; col tempo, però, si contraddistinse per il linguaggio (è il caso di dire) assunto, sempre più dissacrante e di denuncia, in cui l’uso della volgarità dialettale partenopea (e dell’abbondante e fluente turpiloquio, dai più -frettolosamente- considerato la loro unica cifra stilistica) non fu mai fine a sé stesso, ma totalmente funzionale ai temi trattati, dall’omosessualità da sbandierare esplicitamente all’aperta critica di certo bigottismo cattolico, dalla denuncia della politica corrotta allo sbeffeggiamento della ricca e decadente borghesia di provincia.

In questo, la creatività degli “Squallor” si rivelò nettamente in anticipo (di decenni!) sui tempi, anche se solo in anni recenti la riscoperta della loro genialità ha progressivamente ma fatalmente “sdoganato” loro quell’etichetta di “volgare trash” (come si direbbe oggi) che ha spesso, ma troppo semplicisticamente, accompagnato il loro percorso artistico, permettendo infine il completamento del necessario iter di revisione critica che ha definitivamente certificato l’unicità del sodalizio in questione nel panorama musicale e artistico italiano.

Personalmente, sono tre i momenti che ricordo indissolubilmente legati a “questi buontemponi” (per dirlo “cerrutianamente”).

Il primo, nel 1978, quando imberbe e non ancora tredicenne frequentavo, con sovrastimate velleità di disc-jockey, una piccola radio privata della mia zona e casualmente m’imbattei in “Pompa”, uscito l’anno prima: la “Introdurso” iniziale mi folgorò letteralmente, costringendomi di lì in poi ad ascolti clandestini e ripetuti che sarebbero poi diventati parte integrante ed ineludibile del mio futuro bagaglio culturale di giovane uomo.

Il secondo, nei primissimi anni universitari (1983-1984, più o meno), durante i quali diciottenne costituii, assieme ad altre parimenti “cape gloriose” come la mia, un “gruppo di ascolto e studio” per l’esegesi degli immortali testi (e delle musiche, ovviamente) dei “Maestri”; il rituale prevedeva che prima dell’inizio delle lezioni d’aula (Chimica, Biologia, Anatomia…) gli adepti ascoltassero e discutessero un brano (raramente il tempo tiranno ci permetteva di più) dei dischi dell’epoca (“Arrapaho” e “Uccelli d’Italia”, in particolare), prudentemente riversati in musicassette sapientemente occultate in mezzo a quelle utilizzate per le registrazioni “al volo” delle predette lezioni con i registratorini portatili (altro che smartphone e mp3 dell’era moderna, noi bisognava che fossimo dei “geni del male”!). Tale analisi ermeneutica, e gli acclusi esercizi mnemonici, si sarebbero poi rivelati parte fondante e ineliminabile della mia futura formazione di medico.

Il terzo, infine, data anni più recenti (intorno al 2015), quando, indomito cinquantenne, feci mio, dopo affannosa e costosa ricerca sulla rete, una rara copia del CD “Cambiamento”, l’ultimo lavoro dei Nostri, datato 1994 e ormai quasi introvabile. Per circa cinquanta euro, posi fine al mio privato percorso di crescita individuale e umana, ultimando da un lato la personale collezione tematica (tutti gli LP, tutti i CD, qualche 45 giri, i DVD, i film, il documentario, il libro…), dall’altro irrimediabilmente arrendendomi all’incedere degli anni, ma sempre con il filosofico distacco che anni di ascolti di “Pierpaolo” mi avevano insegnato. Tale “confuciana” (vedi gli intermezzi di “Tocca l’albicocca”, 1985) convinzione sarebbe stata, si spera, il necessario fondamento per affrontare la mia futura restante vita di adulto disincantato (come dice il Poeta, “chiagno, ma chi c… m’o fa fa’”).

Oggi dunque, con l’addio ad Alfredo Cerruti (e a cinquantacinque anni suonati) posso ineluttabilmente e definitivamente considerare conclusa la mia giovinezza.

Lorenzo Effuso, medico cardiologo e direttore in ASL, attratto dai motori forse ancor prima che dal latte materno, appassionato di scrittura (altrui soprattutto e, con quanto mai giustificata modestia, della propria persino), scrive di ciò che gli piace (musica o sport, cinema o scienza…) e quando gli pare (tanto non deve leggerlo nessuno). Approfitta della per lui inspiegabile magnanimità del Direttore di questo foglio per dare sfogo, estemporaneamente, a qualche libera elucubrazione. Ha affidato la redazione di queste brevi note descrittive a chi egli ritiene lo conosca meglio, sé medesimo.