“Calce o delle cose nascoste”, il nuovo romanzo di Raffaele Mozzillo che schiaffeggia la sacralità della famiglia

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di Nella Luna

Era chiaro sin da subito, dal titolo d’altronde, che il secondo romanzo di Raffaele Mozzillo (Effequ edizioni), proposto al Premio Strega, sarebbe stato duro – come quell’amalgama di materiali che serve per tenere insieme le cose – e senza sconti se non quelli che si concedono alla vita di persone che arrancano nel solcare la linea sbilenca dell’esistenza quotidiana. Un’opera letteraria priva di mezze misure ma ricca di tante ambivalenze, in fin dei conti proprie dell’essere umano, che ci inchioda ad una partecipazione diretta rendendoci quasi testimoni oculari di segreti e malefatte che scorrono lungo l’asse di tre generazioni e di due paesi, la Svizzera e il sud Italia.

 

In un tempo narrativo dove i personaggi, raccontati alternando sapientemente la terza e seconda persona, si muovono in una specie di sliding doors, a volte corrono in avanti, talaltra fuggono indietro, Mozzillo punta i fari su una serie di temi “antichi”, ma dall’attualità impressionante.

Dall’incipit in cui ci troviamo davanti agli occhi, in una Svizzera degli anni 60, l’immagine di uomini e donne disposti su file separate per i rituali controlli medici e poi ammassati in baracche dove rientrano la sera mezzi morti di lavoro – tanto richiama gli esodi odierni mossi come allora dalla disperazione della sopravvivenza – all’abuso del territorio con la presenza soffocante del cemento selvaggio che erode la natura e deturpa i paesaggi mediterranei – si scorgono nitidi i profili del litorale domizio – ai drammi che si consumano silenziosi all’interno del focolare domestico dove ognuno è chiuso nel suo dolore e nello sforzo di affrontare la durezza, forse anche la banalità, della vita:

 

“Sono parecchie le cose nascoste, quelle che non si dicono all’interno delle famiglie: ci sono storie di padri che i figli non riescono a capire solo perché mancano dei pezzi. E allora succede che la memoria dei fatti si sfalda e la linea che tiene insieme le generazioni si spezza in più punti, disgregando ogni legame e allontanando gli uni dagli altri”.

 

Con la scrittura aspra e poetica di Calce, in cui le parole hanno sempre anche un significato simbolico, come se avessero un doppio fondo, Raffaele Mozzillo ha avuto il coraggio di penetrare nel sistema-famiglia, quella sacra, che non si può toccare, e di sventrarla mostrandone le viscere fetide e imputridite dai segreti e scalfendo, finalmente, quella sua patina immacolata che la vuole un porto sicuro mentre spesso, molto più spesso di quanto non si creda, si rivela essere un legame mortale e mortifero. Eppure, nonostante i personaggi di Mozzillo – uno su tutti, Salvatore, “abbandonato” in Svizzera presso i nonni e dopo alcuni anni riportato nella sua terra d’origine – sembrino necrotici e inerti il suo romanzo trasuda di vita, di piccole esistenze normali che non entreranno nella storia ma che ne fanno parte per quella coazione a ripetere di drammi e disagi che si tramandano di generazione in generazione.

 

E la catena trigenerazionale di storie al centro del romanzo, innestato su uno sfondo grigio e particolareggiato, prende via via forza risucchiandoci in un vortice esasperato e pieno di crepe fino a giungere alla sua risoluzione. E sbangt! Salvatore ci spezza il fiato, ci fa andare in anossia. Questa la potenza lieve del romanzo di Raffaele Mozzillo: ci sorprende, ci spiazza, proprio come deve fare la vera letteratura. Allora grazie di averci tolto l’aria perché in un tempo in cui tutti cercano rassicurazioni, tu ce le demolisci costringendoci a ridefinire e confondere continuamente i contorni del reale e dell’irreale.

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