Pensavo fosse amore e invece era un docufilm

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di Mariavittoria Picone

Su Netflix sta riscuotendo grande successo il docufilm “Unica” con il quale Ilary Blasi disegna Francesco Totti come un vile traditore.

È di questi giorni l’intervista televisiva con la quale Belén Rodriguez accusa Stefano De Martino di essere un traditore seriale, nonché causa della sua depressione.

Qualche mese fa si cantava “Tiene nombre de persona buena, claramente no es como suena”, il refrain della canzone che Shakira ha dedicato a Piqué dopo la separazione, mostrando al pubblico l’orgoglio ferito per il tradimento dell’ex marito.

Anni fa fece scalpore il revenge dress di Diana Spencer che, dopo l’ammissione da parte dell’allora principe Carlo (adesso re Carlo III) dell’adulterio, aveva indossato ad una cerimonia pubblica un abito audace, in segno di libertà, indipendenza e grande sensualità.

Ilary, Belén e Shakira non avrebbero potuto utilizzare l’arma di Diana, per ovvi motivi, si sono già mostrate scoperte e sensuali in tante occasioni, hanno quindi provato a punire gli ex mariti rendendo pubblico il loro dolore e provando a dipingerli come insensibili carnefici, metodo utilizzato poi anche da lady D.

La moglie tradita non si vendica mostrando orgoglio e superiorità, ma chiede l’aiuto del pubblico, dichiarandosi offesa e ferita.

Il fine principale resta sempre distruggere l’immagine dell’ex, ma non attraverso l’esaltazione di sé, bensì mostrandosi fragili vittime e provando a fomentare il senso di colpa nell’altro, lasciandosi accarezzare dalla compassione dello spettatore morboso.

Il pubblico commenta, attribuendo responsabilità e definendo ruoli, anche se non si conoscono le storie nella realtà ed è noto che le dinamiche di una coppia sono talmente complesse da rendere inopportuno qualsiasi giudizio, ma il pubblico elargisce pillole di saggezza social, non resta in silenzio e si presta al gioco.

Si può reagire in modo diverso al tradimento: si può punire con un altro tradimento, obbedendo alla legge del taglione; si può vivere da vittime e continuare ad incolpare l’altro di ogni male; si può perdonare e accontentarsi di altri vantaggi pratici dello stare in coppia; si può andare via ed evitare di stabilire chi sia il carnefice, nella consapevolezza che in una separazione non ci sono vincitori e vinti e se l’amore finisce, finisce per entrambi. La reazione generalmente dipende dalla maturità della persona tradita, ma anche dall’intensità del sentimento.

In questo grande circo Barnum dove il privato diventa pubblico, la storia personale diventa un documentario sui malcostumi delle coppie, conta più il consenso del pubblico che la propria coscienza, non si vive per sé, ma per raccontare di sé. E allora ci si chiede se tutto questo spreco di immagini e parole non sia poi una finzione, un anestetico, un modo per non sentire fino in fondo la vita, come il frastuono di pavesiana memoria.

Rischiamo di diventare sempre più bravi attori e pessimi autori, perdiamo pezzi di umanità per una consolazione effimera: la popolarità, l’applauso del momento di chi non ci conosce. Eppure, se restassimo umani, basterebbe un solo consenso, l’attenzione di una persona sola, per stare bene.

Siamo nell’epoca della razionalizzazione del sentimento, della vita superficiale, che predilige la quantità alla qualità, che fa rumore per non sentire il dolore di fondo, che non vuole faticare, vuole solo giocare.

Come ho già avuto modo di dire, sembra che si applichi un principio della finanza anche alle emozioni, così, per non rischiare di stare male e perdere troppo tempo o troppo pubblico, si segue la diversificazione del rischio, si investe su più contatti, su più relazioni, così al primo scontro, si cambia, senza andare mai a fondo.

Questo modo di vivere tutto in superficie rende banale ogni rapporto ed ogni persona. Solo la conoscenza profonda, il dolore e la fatica della fiducia possono evitare la noia della banalità. Affidarsi a qualcuno è da incoscienti, ma è anche l’unico modo per vivere l’amore.

Sprechiamo parole, immagini e finte emozioni, per paura di sprecare un po’ di anima, per paura del dolore.

Non è l’esigenza di rendere pubblica la propria sofferenza, la vendetta e anche la gioia, a impressionarmi, del resto la migliore letteratura è piena di confessioni, autobiografie e monologhi interiori, mi spaventa l’assenza di autenticità, peculiarità della peggiore letteratura, che riduce ogni sentimento alla benevola e assolutoria rappresentazione di sé.

C’è molta più vita dietro le quinte che sul palcoscenico, c’è molto più amore nei ti amo non detti, c’è molta più verità nelle nostre stanze buie.

Mariavittoria Picone nasce in un caldo dicembre del 1970 a Napoli, dove vive e lavora. Ha pubblicato racconti e poesie su blog e riviste on line. Nel 2020 è uscito il suo primo romanzo Condominio Arenella (IOD Edizioni), accolto favorevolmente dalla critica e dai lettori. Nel 2021 pubblica, sempre con la casa editrice IOD, la raccolta di versi e pensieri Novantanove fiori selvatici. Sognatrice pragmatica, poetessa in prosa, sempre in bilico tra ordinarietà e magia, ironica e drammatica, si definisce un fiore selvatico, un'erba ostinata, nata tra il fuoco e l'acqua, tra un vulcano e il mare.