Un gioco al massacro

Condividi su

di Maria Rusolo

“L’acqua non oppone resistenza. L’acqua scorre. Quando immergi una mano nell’acqua senti solo una carezza. L’acqua non è un muro, non può fermarti. Va dove vuole andare e niente le si può opporre. L’acqua è paziente. L’acqua che gocciola consuma una pietra. Ricordatelo, bambina mia. Ricordati che per metà tu sei acqua. Se non puoi superare un ostacolo, giragli intorno. Come fa l’acqua.”
Ci viene insegnato ad aggirare gli ostacoli nella vita, ci viene insegnato che dobbiamo plasmarci ed essere flessibili e che se vogliamo affermare il nostro pensiero, molto spesso ci tocca tacere, ci tocca evitare, ci tocca vivere in una condizione in cui sottraiamo più di quanto sia necessario. Veniamo al mondo con una cicatrice profonda inferta nella pelle, figlie di un sortilegio che sembra aver determinato già quello che possiamo fare o non fare, sognare o non sognare, comparse o spalla di un copione voluto da altri.
In quante parti delle mondo siamo le prime ad essere messe in discussione, quelle che per prime vengono isolate, minacciate, coperte o spogliate all’occorrenza. Siamo a servizio di un potere fatto di intimidazione e di manipolazione e siamo talmente entrate nel meccanismo che quegli strumenti li assecondiamo e li alimentiamo senza reagire o reagendo lo facciamo imparando dal mondo maschile ad essere subdole, ad essere armi nelle loro mani contro le nostre sorelle.
Quando si tratta di sgomitare per emergere assumiamo l’atteggiamento del maschio prevaricatore e manipolatore, al punto tale che di una donna forte diciamo che ” ha le palle, gli attributi”. Anche il linguaggio lo tolleriamo perché altrimenti che resterebbe di noi?
Un gioco al massacro che anche in tempo di guerra ci rende le più colpite, le più picchiate, le più uccise, paghiamo anche nelle battaglie il prezzo più alto in tema di diritti, di vita, di sopravvivenza. Sacrificano sempre noi sull’altare della affermazione del dominio e lo fanno nel silenzio generale, interrotto solo da qualche insulsa manifestazione di solidarietà. Parliamoci chiaro, la nostra è una libertà apparente, anche nella relazione fisica, siamo sante o puttane, senza alcuna scorciatoia, non dobbiamo godere, o dobbiamo fingere di farlo per non ridicolizzare il maschio che ci dorme accanto. Quando qualcuno ci chiede il consenso, non siamo libere di concederlo o meno, è sempre presunto e come potrebbe essere diversamente, dobbiamo lavorare, guadagnare, accudire, indossavamo abiti troppo succinti, abbiamo accettato l’invito a cena, o abbiamo bevuto troppo.
Se reagiamo, se graffiamo, se usiamo la cultura e l’intelletto, siamo sbandate, polemiche, asociali, divisive, valchirie e distruttive, incarnazioni della dea della guerra, quando ci vorrebbero come Afrodite pronta a sbocciare. Ci vogliono astute e scaltre, ma silenziose. Mio padre mi diceva sempre che ero polemica, perché avevo sempre una cosa da dire, perché dissentivo, che non conoscevo l’arte del compromesso. Oggi mi chiedo questa eterna transazione dove ci abbia condotte, quali vantaggi ne abbiamo tratto, ci spezzano le gambe e ci caricano sui furgoni in guerra, ci dilaniano i corpi, perché vogliamo ballare e vivere felici la nostra sessualità e sentire le nostre pulsioni. “Vittime degli ormoni” e per questo non adatte a guidare i cambiamenti, a gestire, a vestire i panni del capo o del soldato semplice.
Dobbiamo indossare l’armatura che qualcuno ha disegnato per noi, e sapete quello che più mi sconforta e che anche quando pensi di essere diversa, non lo sei, nelle pieghe della tua esistenza ti sei conformata senza accorgerti che stavi perdendo la tua identità, la tua ossatura, che quello scheletro che pensavi di amianto è fatto di cenere e si sbriciola tra le mani di un maschio. Anche io che mi sono sentita sempre una Diana, ho mollato ad un certo punto, ho lasciato che il sistema mi inglobasse e mi stritolasse tra le mani.
Come si ferma tutto questo? Come si strappano le vesti della ancella? Togliendosi il velo dagli occhi ed affrontando le cose per quello che sono, uscendo dalla caverna ed imparando a guardare la vita con sguardo nuovo, scavalcando le ombre lasciate sul muro.
“Non temono che ce ne andiamo di nascosto. Non arriveremmo lontano. Temono altre fughe, quelle che puoi aprirti dentro, se hai un oggetto con un bordo tagliente.”

Nasco in un piccolo paese della provincia di Avellino, con il sogno di girare il mondo e di fare la giornalista, sullo stile della Fallaci. Completamente immersa, sin dalla più tenera età nei libri e nella musica, ma mai musona o distante dagli altri. Sempre con una battaglia da combattere, sempre con l’insolenza nella risposta verso gli adulti o verso chi in qualche modo pensasse che le regole non potessero essere afferrate tra le dita e cambiate. Ho sempre avuto la Provincia nel cuore, ma l’ho sempre vissuta come un limite, una sorta di casa delle bambole troppo stretta, per chi non voleva conformarsi a quello che gli altri avevano già deciso io fossi o facessi. Decido di frequentare Giurisprudenza, con il sogno della Magistratura, invaghita del mito di Mani Pulite, ma la nostra terra è troppo complicata, per non imparare presto ad essere flessibile anche con i sogni e le speranze, per cui divento avvocato con una specializzazione in diritto del lavoro prima e diritto di famiglia poi, ma anomala anche nella professione e mal amalgamata alla casta degli avvocati della mia città. La politica e la cultura , i cuori pulsanti della mia esistenza, perché in un mondo che gira al contrario non posso rinunciare a dire la mia e a piantare semi di bellezza. Scrivo per diletto e per bisogno, con la speranza che prima o poi quei semi possano diventare alberi.