Il ladro di quaderni di Gianni Solla o come diventare un altro attraverso le parole

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di Domenica De Falco

Il ladro di quaderni di Gianni Solla è un romanzo difficile da sintetizzare, per la varietà degli spunti di riflessione che offre, per la quantità di rimandi intertestuali e agganci che suggerisce, per le emozioni diverse e profonde che provoca. Perciò, di fronte a un mosaico così variegato, vale la pena cercare di essere ordinati e pragmatici. Il rischio di farsi sommergere dalla lettura personale (in fondo, si sa, ogni lettore riscrive la storia che legge a modo suo) è alto, altissimo.

Siamo negli anni ’40, e in un piccolo paesino della provincia di Caserta vive Davide, guardiano di maiali, insieme a suo padre Furtunà. Davide è claudicante, analfabeta, maltrattato dal padre, uomo piuttosto rude e fascista, come lo erano in molti all’epoca. All’inizio della storia, è un “indefinito” : si percepisce sin da subito che non è inquadrabile in alcuna categoria, la sua storia è tutta da scrivere e sarà una storia “rubata” agli altri che però lui, con perseveranza, potrà redigere giorno dopo giorno, sui suoi personali quaderni, anch’essi rubati a don Aniello Panzer.

A Tora e Piccilli, dove vive, Davide non immagina un futuro possibile. Può farlo solo attraverso un furto simbolico: la personalità forte, coraggiosa e audace di Teresa che, pur vivendo lì, è già altrove. Ragazza volitiva, tenace, sa che vuole studiare e che prima o poi lascerà quel paesino di provincia senza stimoli e privo di aspettative.

Nella monotonia piatta delle giornate di questi due ragazzi, accade un evento che segnerà per sempre i loro destini: a Tora arrivano trentasei ebrei di Napoli, inviati lì dalle autorità fasciste. È da questo preciso momento che inizia l’inevitabile cambiamento, la trasformazione, la costruzione della nuova identità di Davide. Nel gruppo dei 36, c’è Nicolas. Più che un’apparizione, una rivelazione, un’epifania: bellissimo, sicuro di sé e dello spazio che occupa, intelligente, naturalmente seducente, folgora Davide che è esattamente agli antipodi. E a Davide trema la terra sotto i piedi, sente che da quel momento può perdere tutto, anche se in fondo quel poco che aveva non gli bastava. Ma è, come tutti i momenti in cui si barcolla e si rischia, un momento cruciale dove o reagisci o soccombi. E Davide reagisce…

Gianni Solla

L’Eros la fa da padrone in questi momenti. Nulla di più semplice di una donna giovane e bella e di due giovani “quasi uomini” in preda ai primi, fortissimi turbamenti pulsionali. Teresa è desiderabile e, come tutte le adolescenti, lo sa forse senza saperlo, lo vive con estrema naturalezza. I tre diventano presto inseparabili. Nel frattempo, Davide scrive le sue prime parole, dalla calligrafia ancora incerta, sui suoi quaderni rubati, le prova e riprova per migliorare, le ripete ad alta voce, crea il suono e se ne inebria, lo vive sulla pelle, lo fa diventare carne. Inizia a frequentare la casa di Gioacchino, insegnante e padre di Nicolas e impara, giorno dopo giorno, con assoluta dedizione e perseveranza, a scrivere. Il figlio di un fascista impara a scrivere grazie a un ebreo.

E, giorno dopo giorno, attraverso i cambiamenti, gli strappi inevitabili, la memoria costante e viva di un filo indistruttibile, Davide realizza il suo sogno di essere un altro, di diventare una persona completamente nuova, diversa da quella iniziale, in poche parole si autodetermina. Non a caso diventerà un attore e potrà ogni volta reinventarsi. Mi viene in mente uno scrittore che ho molto amato ai tempi dei miei studi in Francia, Romain Gary, che ripeteva spesso questa frase: “Je est un autre”, sottolineando l’impossibilità per l’essere umano di rinchiudersi in una sola forma definita, asfittica, castrante, mortifera. Mi ritorna in mente anche Pirandello e le sue innumerevoli maschere “nude”. Il teatro, appunto, microcosmo significante e spazio nuovo in cui si muoverà, incredibilmente a suo agio, Davide:

Durante le prove chiedevo che tutti uscissero e una volta solo camminavo lungo le assi del palco, ogni tanto con le mani le spingevo con forza per sentire se scricchiolassero. Un’altra delle mie abitudini che avevano contribuito alla fama di attore meticoloso e antipatico. Non mi spiaceva essere considerato un personaggio poco socievole, in parte assecondava la mia attitudine e in parte stimolava la curiosità del pubblico. Avevo seguito il più ambizioso e inaccessibile dei desideri: essere qualcun altro.

Ma Il ladro di quaderni è anche un inno sublime alla potenza delle parole, alla magia del significante. Ciascuna parola che usiamo determina il nostro modo di essere al mondo. Decidiamo noi come farlo, come starci. Ma per pensare bene è necessario parlare e scrivere bene:

Se scrivi male le cose compaiono male. Perciò devi avere cura di ognuna.

Prima ancora del pensiero giusto e adeguato, emerge con vigore l’esperienza sensoriale, il suono che rimanda alla cosa nominata:

Era stata Teresa a insegnarmi la parola “cianfrusaglie”. Una parola piena di curve, di anfratti dove nascondersi, di salite e discese come il paese una volta superato l’arco che portava alla torre.

Ci sono almeno altri due aspetti che ritengo fondamentale accennare qui. Non c’è spazio per approfondire ma, d’altronde, aprire piste è molto più stimolante che realizzare compendi.

Uno è quello del necessario allontanamento dalla famiglia per crescere. Davide, a un certo punto, scappa e uccide simbolicamente il padre. È un passaggio essenziale e pregnante, soprattutto funzionale al cambio di rotta. Il suo trasferimento in una realtà più grande, Napoli, poi Roma, sancisce definitivamente la sua trasformazione, palesando e attualizzando la sua volontà di essere altro da sé.

Infine, last but not least, il trio significativo Nicolas-Davide-Teresa: un legame indelebile, che gli strappi, gli allontanamenti, i ritorni, non fanno altro che rendere più solido e compatto. Così come avviene ogni volta che si mescolano il corpo e la testa, creando alchimie che superano i confini dello spazio e del tempo.

Gianni Solla mostra con una forza straordinaria e un’assoluta sincerità che il desiderio non soltanto deve farsi azione (Se il desiderio non si fa azione allora non è veramente desiderio) ma ancor più che, lacanianamente, il desiderio è “desiderio del desiderio dell’altro”. Davide desidera Nicolas (vuole essere come lui) che desidera Teresa che, a sua volta, desidera entrambi, anche se il suo desiderio verso Davide avrà un tempo di maturazione più lento.

Davide diventa Nicolas, Nicolas si trasforma in Davide. Teresa rimane nel cuore di entrambi, mostrando anche lei, infine, la sua piccola crepa, la toccante fragilità che ha in comune con tutte le donne nate forti e pertanto costrette a non avere altra alternativa alla forza. Una fragilità che la rende, se possibile, ancora più cara al lettore, più umana:

Non volevo avere paura di niente […]. Volevo essere la migliore, la più brava, prima in paese, poi nella classe, poi al lavoro. Ho continuato a superare tutti fino a che sono rimasta sola. Sono diventata la più sola, in qualcosa alla fine ho vinto.

È difficile concludere. Ci sarebbe tanto altro da scrivere, indagare o almeno suggerire. Credo che questo romanzo sia, senza esagerazione, un piccolo diamante. Va assolutamente letto.

Mi chiedo solo se qualcuno, avviatosi verso la sua fine, sia combattuto – così come è successo a me- tra la curiosità di terminarlo e la nostalgia che arriva, forte e inevitabile, verso ciò che finisce quando è così bello che si vorrebbe farlo durare ancora un po’.

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